nebbie

sabato 16 luglio 2011

Lei aspetta

C’è l’odore familiare di canfora e bucato nell’atrio, gelido d’ombra anche in questa giornata stordita dal caldo e dalle cicale di un agosto in città.
Da piccola era ancora quasi campagna, limite periferico ed estremo della città, cintura esterna di rane, fossi e zanzare che ad arrivarci era comunque un piccolo viaggio verso la libertà di pomeriggi eterni passati a dar la caccia alle lucertole e a costruire archi con il bambù che se ti prendi una scheggia ti finisce nel sangue e muori.
Casa dei nonni: parentesi per ragazzi fortunati tra il luglio al mare e la fine d’agosto in montagna.
Posto di transito e di attesa e desideri enumerati sui petali stracciati dei papaveri, posto per aspettare altri posti e posto per pensare un futuro.
Insegnano ad aspettare fin da piccole alle principesse, ad addormentarsi di attesa e insensibilità sorridente.
Le stanze sono grandi come te le ricordavi e l’odore è sempre quello. C’è ancora in cucina la pompa a mano dell’acquaio che fa scendere lo scroscio nella pietra duplicando la roggia che rumoreggia fuori dalla finestra piccola.
Come ti avevano promesso, ora non devi più alzarti in punta di piedi o chiedere lo sgabello per raggiungere la chiavetta: ora ci puoi arrivare così facilmente da farlo senza nemmeno pensarci. Ma ora che ci arrivi la pompa curva è solo un ornamento retrò e per far scendere l’acqua è sufficiente premere un pulsante.
La scala stretta di pietra ha ancora i gradini di quel marmo povero che adesso sembra così chic, e il corrimano non ti serve alzare il braccio per poggiarci la mano, è sempre quello, sempre uguale.
Il secondo piano ha ancora il corridoio largo come la pancia di una nave, con le porte chiuse che non si aprono perché quando sarai grande capirai che non si fa: ora che puoi portare i tacchi senti il ticchettio della tua camminata da ballerina. Ora lo sai, lo sai vero che il dolore ai piedi deve essere un sorriso di maquillage e tensione?

Aspettare è una disciplina che ti è entrata nel sangue e ora non riesci più a non farlo perché è parte di te in modo talmente intimo che levarla dai gesti sarebbe osceno tanto quanto spogliarsi: l’autobus era lento? Oppure era il caldo di quel maggio che ti ha fatto addormentare e perdere la fermata, e il paesaggio fuori dai finestrini era diverso, mancavano i tuoi punti di riferimento ma sei rimasta ad aspettare fino al capolinea nel tuo educato, compito, gentile sorriso di bambina. Fino al capolinea, con il terrore che l’attesa fosse inutile. Chi ti ha riportato a casa nemmeno lo ricordi più, il solo ricordo è la paura e l’esorcismo dell’aspettare. Se aspetti non  ti può succedere nulla di male, se aspetti il tuo momento.
 
Nella foto sul cassettone della nonna tua mamma sorride in seta a pois, seduta tra le margherite: sembra che aspetti qualcuno che non sei tu.
Così ti lasci andare sul letto grande della nonna, quello che non ci potevi salire da bambina tanto era alto, un catafalco scuro tagliato a metà dalla lama di luce delle persiane sempre accostate, e enumeri le attese come granelli di una clessidra mentale.

Aspettare il momento, ferma con una gamba tesa indietro e l’altra pronta a scattare nella piroetta, il peso dei pattini che fa della grazia una bella fatica: non un attimo prima, nemmeno un secondo dopo per ruotare su te stessa sempre più veloce: se non sai aspettare il momento non sarai mai perfetta.

Aspettare che ti inviti a ballare, seduta con l’aria indifferente di chi non è interessato e l’ansia dentro che ti fa sudare le mani, perché è lui quello che deve fare la prima mossa, lui che deve sceglierti e annullare la puntura del fuso, a lui il dovere di spingere, a te la grazia di cedere.
 
E aspettare che torni, che torni non alla casa ma al cuore, compiendo quel tragitto breve che segna la distanza tra quello che è e quello che deve essere: pazienza annullata di silenzi e il groppo indurito dell’umiliazione.
Aspettare è la svalutazione del tuo essere te stessa e l’esaltazione di una femminilità da vetrina, da parata e spolvero che a levarla di mezzo tu non saresti più quella che eri, ma la parodia di quello che credi.

Così pensi, allungata su quel letto che da piccola non ci si poteva salire, incrociando le braccia dietro la nuca e spostando un poco la testa perché l’unica lama di luce non ferisca gli occhi, che li farebbe lacrimare.
E tu lacrime ne hai ancora, a fiumi, ma che ci sia la scusa, il motivo e la ragione: un film o un libro, una poesia letta sulla porta tesa di un cimitero vuoto: Parigi, dietro Notre Dame.

Anche quel gocciolio sordido ti è negato, da spegnerlo sulla coperta che odora di canfora e lavanda, a fianco di quell’armadio che sembra messo in piedi perché l’anta a specchio si apra sempre un poco lentamente come ci fosse dentro qualcuno che deve spiare.
Aspetti, e fa così freddo nella casa vecchia che tiene fuori l’odore dell’estate e il ronzio basso dei calabroni.
Aspetti che sia uscito tutto il sangue, ferma in quella posizione gentile: perché ad aspettare bisogna essere educati.

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